“La natura è come un arazzo di pregiata fattura intessuto armoniosamente , di cui però vediamo il rovescio e dai fili lenti che vi scorgiamo dobbiamo farci un’idea del disegno nascosto sul dritto”
J.D.Barrow
La serie dei Finman (final man) aveva l’ardita pretesa di catalogare l’incatalogabile, cioè i molteplici aspetti dell’antropomorfismo nella rappresentazione artistica.
L’attitudine a vedere volti dove è difficile individuarli riguarda la percezione, o meglio riguarda la psicologia della percezione e il grado di ambiguità che certe immagini nascondono. I fin man erano un pretesto per cercare di ogni immagine il suo lato nascosto, un pò come capovolgere un quadro di un paesaggio e scoprirvi qualcosa che prima ci era sfuggita: agli inizi degli anni ottanta i miei finman potevano vantare una schiera di illustri precursori più o meno famosi, il quale albero genealogico risaliva agli albori della storia dell’arte.
Fin troppo ovvio è iniziare l’elenco che cercherò a grandi linee di stilare, con i naturalistici e oleosi personaggi di Arcimboldo.
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Giuseppe Arcimboldo - ca. 1590 - Museo Civico Cremona |
Questo geniale artista vissuto nel 1500, ha usato qualsiasi cosa (fauna, flora e oggetti di uso comune) per rappresentare il volto umano, ha letteralmente capovolto il punto di vista dell’osservatore, dipingendo personaggi composti di cose che non avevano nulla a che fare con l’anatomia di un corpo umano; il suo meme ha profondamente segnato la storia dell’arte, tanto da creare quasi una scuola di pensiero che attraverso i secoli arriva fino ai nostri tempi, lasciando tracce visionarie nelle opere di artisti quali Joss de Momper e e Louis Poyet.
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Joss De Momper - Anthropomorphic Landscape 1600 |
Ma probabilmente nè Arcimboldo nè Joss De Momper conobbero mai gli altri aspetti di questa tendenza che già era radicata nell’arte africana - mi riferisco agli anonimi scultori nigeriani de “la faccia di Zuma Rock” e agli intagliatori di maschere e feticci lignei dell’Africa equatoriale- e non di meno nell’arte polinesiana, con gli intrecciatori delle brutali divinità di paglia del pacifico e con i primitivi scultori dell’Isola di Pasqua; per non pensare ad alcuni ideogrammi cinesi e giapponesi che hanno evidenti caretteristiche antropomorfiche o altrimenti agli assemblaggi rituali di pietre del popolo degli Inuit, i quali erigevano precarie sculture dalle vaghe sembianze umane che si mimetizzavano in un paesaggio fatto solo di rocce e ghiaccio.
Nel novecento, questa sensibilità taoista si ritrova negli strani minerali dal volto umano del Conte Juva Antonin Juritzky (cfr. Testa d’uomo, 1948) il quale, a metà tra archeologia e arte, sosteneva che le pietre da lui trovate e raccolte nella regione francese di Levallois, non erano altro che antichi reperti di artisti preistorici, forse gli stessi residenti del continente sommerso di Atlantide.
Proprio nel XX° secolo, la lista dei nomi che abbracciano la scuola di pensiero dell’antropomorfismo, si arricchisce di altre geniali visioni, ampiamente e individualmente sviluppate da artisti quali Paul Klee, Salvador Dalì, Enrico Baj (soprattutto nei quadri giovanili), Jean Dubuffet,Asger Jorn, Alighiero Boetti e dal pittore contemporaneo afroamericano David G. Wilson; e nemmeno a mio avviso si possono trascurare gli sviluppi (a me molto cari) della visione antropomorfica in una disciplina artistica considerata di serie b, ovvero la comics art: chi non ricorda i primi cartoni animati degli anni trenta di Walt Disney, dove ogni oggetto aveva evidenti caratteristiche umane? Fino ad arrivare negli anni sessanta e settanta del novecento dove la fine del futuro è celebrata dalle creature mutanti del geniale maestro Jack Kirby, disegnatore della Marvel comics.
I miei finman anelavano a riassumere tutte queste multiformi tendenze e perciò la stessa connotazione stilistica era ridotta al minimo.
I finman riflettevano l’impossibilità dello stile e nascevano proprio da questa impossibilità. Questa diversità superficiale sottintendeva però un “superstile”: l’uomo di cartone e l’uomo con occhi,naso e bocca avevano un denominatore comune proprio nel fatto che erano così diversi tra loro.
Indirettamente, finman era anche una riflessione sulla complessità biologica, una riflessione sulla insensata prevaricazione di alcune etnie su altre e attraverso l’ambiguità dei segni cercava una umile ma chiara dimostrazione di quella irreparabile “rottura di simmetria” responsabile dell’enorme varietà e complessità del mondo visibile e invisibile.
L’intento di questo breve testo non è esaustivo ma piuttosto selettivo e potrebbe risultare comunque che alcuni nomi o alcuni aspetti dell’argomento trattato siano stati casualmente o volontariamente omessi: uno di questi aspetti è l’influenza sulla pubblicità del pensiero antropomorfico e questo potrebbe essere un buon argomento da sviluppare in futuro.
By Marco Lavagetto
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